Uso & Riuso. Identità ritrovate


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Sabato 27 Luglio alle ore 18, presso Villa Trossi (Livorno – Via Ravizza, 76) si inaugura la Mostra Uso & Riuso. Identità ritrovate da Fabrizio Giorgi, Giovanna Marino, Valerio Michelucci, Stefano Pilato.

Si inaugura Sabato 27 luglio alle ore 18 a Villa Trossi la mostra “Uso&Riuso. Identità ritrovate” con opere e installazioni di Giorgi, Marino, Michelucci e Pilato, quattro artisti livornesi noti a livello nazionale, accomunati dalla pratica di linguaggi artistici espressi con il riuso di materiali e oggetti di scarto.

La Fondazione d’Arte Trossi-Uberti si ripropone all’attenzione del pubblico e ha scelto di farlo con un evento artistico di grande interesse. Assemblaggi, dipinti e istallazioni saranno esposti per tre settimane nelle sale e nel parco della bella villa ottocentesca sul lungomare di Ardenza, appena sottoposta a una riqualificazione dei suoi interni e del magnifico parco che la circonda.

Il progetto espositivo propone un percorso articolato e originale che raduna opere create dai quattro artisti dagli anni Ottanta a oggi, capaci di stimolare il visitatore a riflettere sulla (in)cultura dello scarto, argomento di recentissima attualità non solo a livello materiale, ma anche sociale e umano.

Giorgi, Marino, Michelucci e Pilato, ciascuno con cifre tecniche e stilistiche molto diverse, assoggettano la materia di scarto a un processo di trasformazione formale e di reinvenzione estetica. Attraverso lavorazioni e assemblaggi, questi artisti donano una nuova (e miglior) identità a oggetti considerati rifiuti, che si mostrano ora con ironia e divertimento, ora con pathos e lirismo.

Oltre al divertimento e al godimento estetico, le opere esposte a Villa Trossi si propongono al visitatore come stimolo per riflettere sulla (in)cultura dello scarto, argomento di recentissima attualità a livello materiale, ma anche sociale e umano. Al contempo inducevano a considerare la molteplicità di valenze di cui l’uso di objets trouvés si è caricato nel tempo.

Da circa un secolo, infatti, il linguaggio artistico ha proposto oggetti di uso comune elevandoli a valore d’opera d’arte. Fountain, l’orinatoio che nel 1917 Marcel Duchamp ha provocatoriamente capovolto, firmato ed esposto su un piedistallo è stato il primo ‘prelievo’ dalla realtà che ha segnato il rifiuto della produzione dell’opera d’arte tradizionale.

L’impiego di oggetti d’uso comune è stato dettato, soprattutto a partire dagli anni Cinquanta, dalla volontà di presentare la realtà quotidiana, di creare una continuità tra arte e vita squarciando il diaframma che fino a quel momento le aveva separate. Le sperimentazioni di Burri e del New Dada, che ha in Rauschemberg, Johns e Dine i suoi più emblematici rappresentanti, non propongono mai ready-mades (“oggetti già fatti”) nobilitati a icone immortali, ma combine-paintings, assemblaggi di cose, materiali e pittura che esaltano pezzi di realtà e lavoro artistico.

La dialettica che da allora si è instaurata tra gli oggetti e l’artista che li recupera o li trova, li sceglie e li lavora è stata declinata in innumerevoli espressioni formali e stilistiche, coinvolgendo lo status ontologico dell’oggetto, il suo rapporto con il mondo e con l’uomo.

Alla Junk Art americana (“arte spazzatura”) faceva eco nei primi anni Sessanta il Nouveau Réalisme francese che ha puntato l’attenzione sull’oggetto di scarto per denunciare la logica immorale dell’usa e getta perpetrata della società di massa: le accumulazioni di rifiuti di Arman, i décollages di Rotella, le compressioni delle lamiere d’automobili di César sono solo alcune delle opere più celebri di quel gruppo.

Quando alla fine dei rivoluzionari anni Sessanta, a Torino Germano Celant definiva il concetto di Arte Povera intorno al lavoro provocatorio di una quindicina di giovani artisti italiani, l’utilizzo di materiali d’uso comune non era più inteso come testimonianza dell’evoluzione della società, ma come l’unica via per rappresentare la vita quotidiana, l’attività dell’uomo e dell’artista. Materiali poveri, comuni, addirittura organici erano posti a interagire con aspetti immateriali come la gravità, l’elettricità, gli odori, le emozioni e le reazioni del pubblico. L’opera d’arte cessava di essere un fatto concluso per assomigliare a un processo, a un’energia, a un divenire mutevole come la vita.

Oggi, nell’epoca in cui l’ecologia, le energie rinnovabili e il riciclo sono entrati a far parte del patrimonio d’idee condivise a livello globale, il mondo dell’arte e del design ha dimostrato una nuova sensibilità per tutto ciò che è scarto, giunto al day after della vita di prodotto di consumo. Non stiamo parlando di mero re-cycling (“riciclo”), bensì di un’operazione più complessa e decisamente migliorativa: l’up-cycling. Se per il design possiamo tradurre questa espressione con “riuso creativo” o “eco-design”, per le opere d’arte di Giorgi, Marino, Michelucci e Pilato essa risulterebbe riduttiva giacché gli oggetti che le compongono non si reimmettono tali e quali nell’uso quotidiano. La materia di scarto è soggetta a un processo di reinvenzione artistica che attraverso lavorazioni e assemblaggi la trasforma donandole una nuova esistenza. In questo percorso di rinascita, gli scarti assumono una nuova forma estetica ma soprattutto una nuova sostanza, unica come la sensibilità del suo creatore.